Di una città amo ciò che mi suscita, quello mi fa sentire, quando compio un viaggio, lo amo per quanto mi fa esplorare dentro la mia testa, per quanto mi fa vibrare sotto la pelle. Ebbene, ho amato New York per un suo talento intrinseco: farti percepire l’inimmaginabile, instillarti la speranza, l’energia, la sensazione della possibilità sopra ogni cosa.
Il primo posto nel quale sono stata letteralmente travolta è stato Times Square: luci forti, grattacieli e cartelloni pubblicitari ciclopici e una prepotente quantità di gente da dubitare che potesse essere contenuta proprio tutta! Eppure lì, nel bel mezzo della folla, un gruppo di vecchi e ragazzi giapponesi ha intonato, mano sul petto, occhi al cielo, un inno corale sentito e in un attimo si è fatto silenzio attorno a loro, e anche un nuovo spazio nudo. New York e dove ti sembra non ci sia posto anche per te, ma se lo desideri, eccolo che compare e ci puoi cantare…
A Central Park, dopo aver assistito all’esibizione di un ragazzo con un violino e gli occhi neri come la pece, ho incrociato un anziano signore abbigliato in maniera elegante, sembrava venisse dagli anni ’30 o giù di lì e i suoi modi lo erano altrettanto: New York è una macchina del tempo, un panama chiaro, una rosa nel taschino, è la musica sopra un ponte che da su un lago, lontana dal palcoscenico.
A Soho ho intravisto Scott Schuman, il fotografo che immortala le persone per strada per il fatto di essere vestite in maniera cool. Questa cosa si chiama Street style. In effetti, in quel quartiere c’è un’alta concentrazione di uomini e donne assolutamente cool, che dimostrano come l’unica regola che seguono quando si “coprono” è quella dell’ emancipazione, dalle norme del buon vestire, della morale, della taglia. A New York puoi essere nel modo in cui vuoi, con quello che scegli di indossare, oltre la moda comune
Nel quartieri cinese prima e in quello Coreano poi, tra una zuppa Pho e i murales raffiguranti pubblicità pop in stile asiatico, tra Udon conditi con ingredienti misteriosi e tagli a mandorla di occhi affascinanti e templi buddisti dove ritrovare il silenzio e il misticismo, ho realizzato che a New York regna una quantità incalcolabile di culture e razze, è ogni volta un paese altro dentro il paese, è un popolo all’interno del quale sono confluiti tutti i popoli del mondo, è, in altre parole, il viaggio nel viaggio.
A Chelsea l’arte, scevra dall’eredità del classicismo imperante in Italia, è sperimentazione, divertimento, audacia, provocazione. E la trovi in una miriade di gallerie dove viene presa sul serio, sulla quale evidentemente si investe, nella quale probabilmente si crede. Come pure sulla creatività nelle sue forme più varie, non a caso qui si trovano ogni giorno in ogni angolo di strada, market di creativi che espongono e vendono quello che producono, che sia design, moda, fotografia poco importa, ciò che conta è l’opportunità che viene data loro, la sinergia che si crea in questi spazi democratici, la reale possibilità di vivere di quello che ci si inventa. Non esattamente come in Italia. Non ancora, almeno.
E sulla Fith Avenue ho conversato con un tassista greco, che, mentre ci descriveva i luoghi che incrociavamo, improvvisandosi all’occorrenza simpatica guida turistica, ci ha raccontato di quando la sua famiglia decise di raggiungere per mare la terra newyorkese in cerca di fortuna. Lui era un bambino, ma i ricordi d’infanzia ancora oggi sono indelebili e lo riportano alla sensazione del sale sulla pelle, ai profumi di spezie della cucina della nonna, alle domeniche di messe e pranzi affollati di sentimenti. Tutto questo gli manca ancora terribilmente e per la prima volta a New York ho sentito la vicinanza sincera con un estraneo: eravamo accomunati dalla stessa malinconia per i luoghi natii, eravamo fratelli.
Ormai l’America è lontana
Dall’altra parte della luna
Che ci ha guardato, al nostro rientro da New York, e anche se rideva
A vederla ci ha messo quasi paura…