5 del mattino al Cairo. Ero seduto su un marciapiede in piazza Tahrir, in attesa che le strade si affollassero come al solito e che, tra le migliaia di veicoli i cui clacson avrebbero presto iniziato a suonare compulsivamente e senza un preciso motivo, passasse un microbus diretto verso una delle varie oasi isolate del deserto occidentale.
Mi era stato detto che da quelle parti c’erano un deserto bianco e uno nero. Continuavo a pensare a come fosse possibile, dato che per me la sabbia è sabbia e, in quanto tale, è ocra e rimane ocra. Mentre la mia mente già viaggiava per conto suo, un provvidenziale microbus mi raccolse dal ciglio della strada, sgommando rapidamente in direzione sud-ovest. E una volta arrivati a destinazione, ciò a cui mi trovai di fronte era totalmente diverso da ogni mia aspettativa.
Immaginate un’ampia superficie il cui suolo è fatto interamente di lisce rocce di gesso bianco, levigate dal vento, di differenti dimensioni e forme. In alcuni punti emergono in verticale delle formazioni rocciose, grossi massi color ocra sparsi qua e là in maniera noncurante ma precisa. Poi pensate a della sabbia finissima, tanta, ma non sufficiente a coprire tutto lo spazio a disposizione, e quindi lasciata cadere un po’ a caso; si vengono così a creare delle zone ben coperte ed altre in cui la sabbia non basta a nascondere il gesso. E proprio dove fa capolino, la roccia assume la forma di un piccolo mare mosso da spumose onde bianche che cambiano sfumatura a seconda della luce.
È risaputo che nel deserto l’escursione termica fra giorno e notte è molto elevata, ma non avevo preso questa storia troppo sul serio. Grande errore. Verso le 4 del mattino, dormire era diventato proibitivo: né il fuoco né i vari strati di vestiti riuscivano a contrastare le sferzate di vento gelido. Pensai che camminare sarebbe stata l’opzione migliore per scaldarsi, e decisi di iniziare ad esplorare il deserto, portando con me l’attrezzatura per scattare alcune foto notturne. Ero solo. Tutto ciò che potevo percepire erano calma ed energia, tutto ciò che potevo ascoltare era un silenzio profondo, e tutto ciò che potevo vedere era la luna: la vedevo in cielo, e allo stesso tempo ci camminavo sopra.
E mentre mi spostavo come un nomade per quel pianeta alieno così intimo e sconfinato, pensavo a quante tempeste di sabbia fossero passate di lì per riuscire a modellare la roccia; a quanti anni ci fossero voluti a levigare perfettamente quel suolo di gesso bianco; al perché non avevo mai sentito parlare di quel posto in vita mia, prima di arrivare in Egitto; al perché facesse così freddo, pure. Mille pensieri e mille domande, mentre cercavo di riempirmi gli occhi con quella vista, provando a catturare ogni singolo particolare e ricordarlo, per riuscire a portare via con me la pace che, lì, inondava ogni cosa. Quasi senza che me ne rendessi conto, il cielo si andava schiarendo, e un caldo sole iniziava ad albeggiare, riappropriandosi prepotentemente della scena.
Sulla strada che dal deserto occidentale mi avrebbe riportato al Cairo, inaspettatamente, in una fase di dormiveglia, vidi dal finestrino un insieme di montagne, simili a tante Piramidi nere sparse in disordine in mezzo al nulla. Il microbus accostò e aprì le porte, così decisi di scendere e, ancora mezzo addormentato, cominciai a guardarmi intorno. Tutto era diverso dal deserto bianco: i colori, i tipi di roccia e di sabbia, la temperatura. Solo una cosa era la stessa: il fatto che fosse deserto (e lo era davvero), ma nero. La vista da terra era imponente ma non mi bastava, dovevo guardare il tutto da un punto un po’ più alto.