Al Bryce Canyon ci arriviamo in pomeriggio. Siamo nello Utah, terzo stato americano finora raggiunto. Da poco ha piovuto, ma il temporale, ormai ben visibile all’orizzonte, è parte dell’atmosfera surreale che ci circonda.
Ci fermiamo al primo view point e restiamo senza parole di fronte alla capacità della natura di creare architetture senza lasciare nulla al caso. Gli hoodoos o camini delle fate, come narra la leggenda, sembrano davvero essere stati creati da divinità celesti. Ci lasciamo incantare per qualche secondo, ma il tempo è tiranno e dobbiamo ripartire.
Al sunrise point ci imbattiamo in un pinus flexilis. La flessibilità dei suoi rami gil permette di sopravvivere in condizioni avverse di meteo e di altitudine. Infatti, anche se non sembra, siamo sopra i 2400m slm. Ci vogliono almeno 15 minuti, qualche minaccia, e la promessa di farla guidare, per dissuadere Silvia dal fotografare qualsiasi pinus flexilis le capiti davanti.
Da qualsiasi punto lo si guarda, il Bryce Canyon riesce sempre a sorprendere, ogni tappa sembra essere migliore della precedente, ogni passo ha un nuovo scorcio, e il magnifico anfiteatro che si vede all’inspiration point ci lascia senza fiato.
E’ calato il buio, rientriamo in albergo, e dopo una doccia veloce usciamo per mangiare qualcosa. Ma sono le 21, e a quest’ora, tra le montagne dello Utah, sembra quasi impossibile cenare.